Gli antichi vizi di una politica estera miope

In meno di una settimana il governo Prodi ha riscosso numerosi e corposi “successi” che vanno dall’affaire Sircana, al decreto del Ministro Turco annullato dal TAR, per poi arrivare al gran finale con la figuraccia rimediata dal Ministro degli Esteri D’Alema di ritorno da Washington. In particolare, la gaffe d’alemiana ha messo a nudo l’impossibilità per questa maggioranza di dar vita a una politica estera degna di un paese occidentale.
Mai come adesso i rapporti tra USA e Italia sono stati così tesi, forse nemmeno per la crisi di Sigonella. A differenza di oggi, allora l’Italia poteva permettersi certe libertà, perché con la Guerra Fredda per noi tutto era più facile. Nelle occasioni che contavano eravamo, assieme agli inglesi, gli alleati più affidabili degli Stati Uniti in sede NATO, salvo concederci tante libertà non proprio ben viste dall’alleato a stelle e strisce. Dal filoarabismo di stampo andreottiano a certi ammiccamenti all’Unione Sovietica, certe nostre ambiguità, pur se malviste, erano comunque tollerate, perché l’Italia era pur sempre un alleato indispensabile nella scacchiera della Guerra Fredda e, nelle occasioni importanti (vedi le installazioni degli Euromissili a Comiso nel 1985), non mancava mai il nostro assenso, anche se ciò avveniva più per senso del dovere e opportunismo, che per entusiasta convinzione anticomunista.
Con la fine della Guerra Fredda, l’indispensabilità dell’Italia è venuta meno, così adesso nulla ci viene perdonato. La sovrapposizione delle logiche del “lealismo” atlantista e occidentalista a quelle nazionali della democrazia compiuta comportavano la cancellazione dal discorso politico dei grandi temi di politica estera e di sicurezza, l’assenza di dibattiti sui problemi reali e l’eliminazione di ogni riferimento agli interessi nazionali. L’Italia, quindi, poteva permettersi il lusso di limitarsi a eseguire quanto stabilito a Washington, evitando così l’onere di decidere in proprio sul da farsi. Ebbene, oggi non è più così e le nostre classi dirigenti devono darsi una linea coerente di politica estera. Dopo 50 anni di tutoraggio americano, oggi siamo diventati adulti, maggiorenni e vaccinati e, come tali, spetta a noi decidere sulla base di strategie geopolitiche coerenti e chiare. Già nel febbraio 1991, durante la Prima Guerra del Golfo, il sostegno dato al piano Primakov-Gorbaciov per bloccare l’attacco terrestre contro le forze irachene in Kuwait, ci costò una severa reprimenda dall’alleato americano, mentre nel 2003, la volontà di salvaguardare a tutti i costi i nostri rapporti commerciali con l’Iran ci è costata l’esclusione dal gruppo di contatto europeo, chiamato a condurre trattative con la repubblica degli Ayatollah, formato da Gran Bretagna, Francia e Germania, che per entrare nel gruppo ha messo in conto una diminuzione del 30% degli scambi con l’Iran.
Purtroppo, la pluridecennale e comoda “vacanza decisionale” dei tempi della Guerra Fredda, ci ha reso incapaci di stabilire, un qualsivoglia interesse nazionale in base al quale formulare una politica estera e di sicurezza. E una classe dirigente priva di una visione concreta del ruolo del proprio paese nel mondo non può che ondeggiare tra un velleitarismo ideologico privo di costrutto e una politica estera ispirata a squallide logiche di politica interna, come oggi accade al centrosinistra. L’apertura fatta dal governo Berlusconi agli Stati Uniti, per smarcare l’Italia dalla subalternità della Francia e degli euroburocrati di Bruxelles (tanto cari alla sinistra), aveva un certa coerenza, ma, come al solito, mostrava l’incapacità italiana di assumersi fino in fondo le proprie responsabilità di fronte ai pericoli, come dimostrato dall’ambiguità relative alle trattative condotte in Iraq per la liberazioni degli ostaggi, probabilmente all’insaputa degli alleati, come dimostra l’incidente relativo al caso Calipari. L’esercito italiano è  presente su vari teatri di guerra in veste di peacekeeping, ma sempre in veste “umanitaria” e mai in prima linea. Se nella prima guerra del Golfo mandammo due fregate giusto per far vedere che c’eravamo anche noi, da allora le cose sono cambiate più nella forma che nella sostanza. Oggi, poi, il centrosinistra al governo non ha più la serietà del vecchio PCI, ma è espressione della peggior cultura sessantottina i salsa no global, infarcita di infantilismo e velleitarismo. Solo dei post-sessantottini potevano proporre una conferenza di pace con i talebani. Solo grazie alla loro incoscienza ci si è potuti affidare al novello Che Guevara Gino Strada, facendo liberare cinque terroristi in barba agli Stati Uniti, senza capire che, a differenza dei tempi della Guerra Fredda, questi sgarri si pagano a meno che non si abbia una lunga tradizione nazionale e una forte coesione interna come ha la Francia. Ma queste due cose l’Italia non le ha. Giunti a questo punto sarebbe ora che l’opposizione di centrodestra si svegliasse e votasse no una missione che vedrebbe i nostri militari con le mani legate da regole di ingaggio troppo restrittive per respingere l’ormai imminente contrattacco talebani. Un no che se portasse alla caduta del governo Prodi, a Washington (e non solo) sarebbe quantomai apprezzato. Ma fino a che punto lo sarebbe anche dentro la Casa delle Libertà? 

 

(La Voce di Romagna, 23/3/2007)

  1. Lascia un commento

Lascia un commento